La drammatica vicenda della comunità di esuli politici sudanesi che vivono a Palermo da più di un anno è sintomatica dell’estremo disagio in cui versano tutte quelle donne e quegli uomini a cui viene negata non solo la libertà di circolare, muoversi, emigrare ma anche quella ancor più fondamentale di vivere pienamente la propria vita.
In Italia così come in tutta Europa, l’attuale normativa vigente in materia di immigrazione pone degli ostacoli molto seri alla concreta possibilità da parte di quelli che vengono definiti "extracomunitari" di accedere al diffuso benessere europeo e, più in generale, occidentale.
Viene eliminata alla radice la possibilità di entrare a patto che la propria "regolarità" sia garantita da una preventiva collocazione lavorativa che la maggior parte delle volte è essa stessa ben al di sotto degli standard occupazionali in ambito europeo.
Il nodo dell’accoglienza resta in ogni caso impossibile da sciogliere poiché le leggi razziste non arrestano minimamente i flussi migratori, tanto più che le dinamiche su scala mondiale (politiche, economiche, sociali) fanno sì che lo sfruttamento, le guerre, la precarietà inducano sempre più persone a cercare scampo là dove si pensa che si possa vivere meglio.
Quando, come nel caso dei cinquantatré sudanesi di Palermo, l’immigrato assume la connotazione di rifugiato politico, possibilmente politicizzato o comunque sufficientemente consapevole di quelli che sono diritti, doveri, obblighi e assunzioni di responsabilità, tutto si complica ulteriormente.
I fatti di questi giorni lo dimostrano.
Seppur con notevole ritardo, i membri di questa comunità hanno espresso chiaramente la necessità (che è anche un diritto riconosciuto legalmente) di ottenere lo status di "rifugiati politici", ponendo le istituzioni pubbliche e religiose di fronte a una richiesta precisa.
Tale richiesta implica necessariamente il riconoscimento di una condizione e dunque di un impegno affinché vengano presi i dovuti provvedimenti.
L’accoglienza dell’immigrato, clandestino o meno che sia, è tradizionalmente appannaggio delle strutture religiose, e in Italia religione fa rima con cattolicesimo.
È curioso che proprio di fronte ai sudanesi le porte clericali si siano clamorosamente chiuse: le irriducibili divergenze con Biagio Conte di "Speranza e Carità" non sono state risolte proprio perché questi ritiene inconcepibile che le persone "accolte" possano informarsi, guardare la televisione, aumentare la propria conoscenza del mondo e del loro ruolo nel mondo.
Chi chiede asilo politico non può certo rinunciare a tutto questo.
Non fa specie, di contro, la sordità delle istituzioni pubbliche – Comune e Prefettura – la cui proposta immediata è stata quella di trasferire i sudanesi in un centro di accoglienza sito a Montelepre a quaranta chilometri dal capoluogo.
Lontano dagli occhi, lontano dal cuore.
Ancor prima di intavolare qualsivoglia trattativa, il Laboratorio Sociale Occupato ZETA si è assunto l’onere di provvedere esso stesso all’accoglienza di persone che erano rimaste letteralmente per strada. Una struttura occupata illegalmente (secondo i parametri istituzionali) assolve dal 3 marzo scorso una funzione di utilità pubblica e sociale che nessuno può disconoscere e che merita apprezzamento, sostegno e concreta solidarietà.
A fronte di tutto questo, sono pervenute da parte istituzionale risposte poco incoraggianti, tanto che lo sgombero cui è sottoposto lo ZETAlab viene usato ora come minaccia permanente che oggi più di ieri ha il sapore della ritorsione.
Un inquietante blocco d’ordine sembra voler soffocare i sudanesi, i compagni dello ZETAlab e tutti i cittadini che si stanno impegnando in questa battaglia di libertà. Un isolamento prodotto dall’ostruzionismo prefettizio, dalla sordità del Comune e dall’indecifrabile silenzio delle gerarchie ecclesiastiche.
Tale isolamento sembra non dare i suoi frutti dato che la solidarietà nei confronti dei protagonisti di questa vicenda va crescendo e si diffonde sempre di più anche grazie alla costante e precisa diffusione di informazioni che viene fatta in ambito cittadino e non solo.
Al di là della risoluzione di tale vertenza che è certamente auspicabile, il caso degli esuli del Sudan pone un problema fondamentale in merito al fenomeno dell’immigrazione: come creare accoglienza reale sganciandosi dal controllo delle strutture religiose o private?
Nel momento in cui gli stranieri rivendicano diritti e si pongono come soggetti attivi, la risposta istituzionale è molto negativa.
Ciò significa che bisogna far leva proprio su questo rifiuto per pensare ad un’accoglienza di tipo "alternativo" in cui siano gli immigrati stessi a dettare le condizioni per un pieno soddisfacimento delle loro esigenze.
Costringere le istituzioni a riconoscere l’immigrato come soggetto consapevole è il primo passo verso un necessario spostamento dei rapporti di forza finalizzato a una gestione diretta dell’accoglienza da parte degli immigrati.
Le formule "cristiane" di accoglienza per quanto rispettabili nella concretezza della funzione che assolvono, mostrano in definitiva dei limiti strutturali che spesso vengono a galla con grande drammaticità come in questo caso.
L’impegno militante di quanti in questi giorni stanno sostenendo la comunità sudanese anche nella trattativa per ottenere un posto sicuro nel quale i profughi possano vivere e organizzare la propria attività politica, dimostra l’esigenza di una accoglienza dal basso che liberi gli immigrati dal monopolio della gestione cattolica della "carità".
La lotta dei sudanesi assume oggi il valore di una prima tappa di questo percorso di liberazione che se intrapreso con coraggio e determinazione potrà portare i suoi frutti.
Evidentemente, questa prospettiva fa paura a molti.

Federazione Anarchica Siciliana – Nucleo "Giustizia e Libertà"

16/03/2003